giovedì 12 maggio 2011

Il paese che non c'è sulle carte geografiche

In concomitanza con l'uscita del romanzo giallo di Amos Cartabia, è con grande piacere che pubblichiamo un meraviglioso lavoro di Enzo Maneglia dedicato a Fighille accompagnato da un testo di Franco Ruinetti in cui parla del paese e delle avventure immaginate nel romanzo. 
A entrambi va il nostro grazie.


UN DELITTO CHE NON C’E’.

Fighille è il paese che non c’è sulle carte geografiche normali. Per trovarlo occorre consultare le mappe stradali a cui non sfugge niente e frugano nel territorio con la lente d’ingrandimento. Non è un paese, infatti, se vogliamo parlare a rigore di termini, si tratta di una tessera in quel mosaico articolato del comune di Citerna, un lembo che sale dal piano alla collina, dolcemente, senza scarti, estrema briciola dell’Umbria, dimenticata anche dalle pagine dei quotidiani locali. 
Ma va bene così perché la notizia più bella è quella che non c’è. 
Per renderla alla pari con le città importanti, in sintonia con quanto, spesso, succede altrove, per fingere di far rimbalzare la località al disonore delle cronache, lo scrittore di storie gialle ha raccontato un omicidio che non c’è e lo ha ambientato proprio lì dove la gente tranquilla pensa a lavorare e non ammazza nessuno. La realtà è migliore della fantasia, che però riesce a legare l’attenzione e fa trattenere il fiato per un centinaio di pagine. 
Fighille è fatta di case sparse tra i campi di grano, di fieno, di girasoli. Esse sono ampiamente distanziate, non si spingono, non si saltano addosso e sono basse perché qui non è arrivata la frenesia delle vertigini. E intorno ad ogni abitazione c’è un orto oppure un giardino, c’è lo spazio dove vivono e passano le stagioni. E’ un villaggio cortese. D’estate offre le more di gelso, succose nere, che macchiano le mani e la faccia. S’incontra poi il ramo del fico che scavalca il muro di cinta, sul quale schizza all’improvviso il verde della lucertola. Presenta il frutto maturo bello carnoso, all’altezza giusta. Sarebbe maleducazione rifiutare l’invito. 
Siamo sulla scena di un immenso anfiteatro naturale. Le giogaie dei monti chiudono tutto intorno l’orizzonte e proteggono il nido della vallata, dove corre il Tevere che porta via la rabbia dei temporali e il gelo dell’inverno. 
E’ un posto nel quale l’amicizia si respira. Il nuovo si declina con l’antico. Nelle sere della tarda primavera la pianura è animata dal tremolare delle lucciole, polvere di stelle. Ma contemporaneamente siamo nel presente: basta un clic per spostarsi in tempo reale a Tokyo, Mosca, nelle capitali dell’universo. Dove però non c’è un gallo che sveglia tutto il pollaio e ti chiama alla finestra per guardare il miracolo che si rinnova. 
Guerrino Bardeggia disse che avrebbe fatto un monumento da collocare vicino al vetusto pozzo. Non intendeva celebrare l’eroe, il politico, lo scienziato, ma il lavoratore che in silenzio tira il carro del mondo. Un falegname. Perché gli avevano parlato di quello localmente famoso, attivo prima della guerra, ingegnoso, i cui armadi e cassepanche ne dimostrano ancora la bravura, che produceva da sé gli strumenti come pialle, sgorbie, sponderuole e, lavorando, recitava la Divina Commedia. Lo scultore non fece a tempo a farlo perché un refolo di vento a cielo sereno spense la sua fiamma. Così coloro che sanno del proposito inattuato e conoscono il linguaggio plastico vigoroso, dolce sopra le righe dell’artista possono soltanto sognare l’opera importante che sarebbe stata modellata nella luce della ceramica. Perché purtroppo non c’è.
 Franco Ruinetti